Gaio
Giulio Cesare
Il primo
triumvirato, l'accordo privato per la spartizione del
potere con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso,
segnò l'inizio della sua ascesa. Dopo la morte di Crasso (Carre, 53 a.C.),
Cesare si scontrò con Pompeo e la fazione degli Optimates
per il controllo dello stato. Nel 49 a.C.,
di ritorno dalla Gallia, guidò le sue legioni attraverso il Rubicone,
pronunciando le celebri parole «Alea
iacta est», (“il dado è tratto”) e
scatenò la guerra
civile, con la quale divenne capo indiscusso di Roma. Alla
vigilia dell'omicidio, Calpurnia, la moglie di Cesare, donna del tutto priva di
superstizioni religiose, fu sconvolta da sogni in cui la casa le crollava
addosso, e lei stessa teneva tra le braccia il marito ucciso. Lo stesso Cesare
sognò di librarsi nell'etere, volando sopra le nubi e stringendo la mano a
Giove. Il giorno successivo, quello delle Idi
di marzo, il 15 del mese, Calpurnia pregò dunque
Cesare di restare in casa, ma quegli, che la sera prima aveva detto, a casa di
Lepido, che avrebbe preferito una morte improvvisa allo sfinimento della
vecchiaia, sebbene si sentisse poco bene, fu convinto dal congiurato Decimo Bruto Albino a recarsi comunque in senato.
Entrato
in senato, si andò a sedere ignaro al suo seggio, dove fu subito attorniato dai
congiurati che finsero di dovergli chiedere grazie e favori. Mentre Decimo
Bruto intratteneva il possente Antonio fuori dalla Curia, per evitare che
prestasse soccorso, al segnale convenuto, Publio
Servilio Casca Longo sfoderò il pugnale e colpì Cesare al collo,
causandogli una ferita superficiale e non mortale. Cesare invece, per nulla indebolito, cercò
di difendersi con lo stilo che aveva in mano, e apostrofò il suo feritore
dicendo: "Scelleratissimo Casca, che fai?" o gridando "Ma
questa è violenza!" Casca, allora, chiese aiuto al fratello, e
tutti i congiurati che si erano fatti
attorno a Cesare si scagliarono con i pugnali contro il loro obiettivo: Cesare tentò inutilmente di schivare le
pugnalate dei congiurati, ma quando capì di essere circondato e vide anche
Bruto farglisi contro, raccolse le vesti per pudicizia e alcuni dicono si
coprisse il capo con la toga prima di spirare, trafitto da ventitré coltellate. Cadde ai
piedi della statua di Pompeo, pronunciando le ultime parole che sono state
riferite in vario modo:
- Tu quoque,
Brute, fili mi!
("Anche tu Bruto, figlio mio!").
Svetonio gli
attribuisce numerose relazioni, che gli costarono anche notevoli somme di
denaro; lo stesso autore dice peraltro che il suo più grande amore fu Servilia Cepione,
madre di Marco
Giunio Bruto, che fu sua amante per moltissimi anni ed
alla quale fece favolosi doni. Proprio questo rapporto sarebbe all'origine
della celebre frase sopra citata e pronunciata nei confronti di Bruto mentre
veniva colpito da quest'ultimo.