di Francesco Casula - Pubblicato il: 23/09/2013
Noto che intellettuali insospettabili e avveduti
continuano a ripetere il becero e trito luogo comune sui
Sardi pocos, locos
y mal unidos, attribuito a Carlo V, ma mai verificato
in alcun documento o altra fonte storica. Del resto l’imperatore poco doveva
conoscere la Sardegna se non dai dispacci “interessati” dei vice re: solo due
volte la visitò direttamente. Nel 1535
quando durante la spedizione contro Tunisi e i Barbareschi sbarcò a Cagliari
trattenendosi alcune ore e nell’ottobre del 1541, nella seconda spedizione,
questa volta contro Algeri, il più attivo nido dei Barbareschi. In questo caso
la flotta imperiale sostò in Sardegna: ma non – come ebbe a sostenere Carlo V –
per visitare Alghero, dove passò la notte del 7, bensì per esserne
abbondantemente approvvigionato, a spese della popolazione della città catalana
e dell’intero sassarese. Ma tant’è: tale luogo comune – a prescindere da Carlo
V – è stato interiorizzato da molti sardi, con effetti devastanti, specie a
livello psicologico e culturale (vergogna di sé, complessi di inferiorità,
poca autostima, voglia di autocommiserazione e di lamentazione) ma con
riverberi in plurime dimensioni: tra cui quella socio-economica. I Sardi certo
sono pocos: e questo di per sé non è necessariamente un fattore negativo. Ma non locos: ovvero stolti,
stolidi e men che meno imbecilli. Certo le
esuberanti creatività e ingegnosità popolari dei Sardi furono represse e
strangolate dal genocidio e dal dominio romano. Ma la Sardegna, a dispetto
degli otto trionfi celebrati dai consoli romani, fu una delle ultime aree
mediterranee a subire la pax romana, afferma lo storico Meloni. E non fu
annientata. La resistenza continuò. I Sardi riuscirono a
rigenerarsi, oltrepassando le sconfitte e ridiventando indipendenti con i
quattro Giudicati: sos rennos. Certo con catalani, spagnoli e piemontesi
furono di nuovo dominati e repressi: ma dopo secoli di rassegnazione, a
fine Settecento furono di nuovo capaci ai alzare la schiena e di ribellarsi
dando vita a quella rivoluzione antifeudale, popolare e nazionale che porrà la
base della Sardegna moderna.
Certo, si è tentato in ogni modo di
scardinare e annientare lo spirito comunitario, la solidarietà popolare, quella
pluralità di reti sociali e di relazione che avevano caratterizzato da sempre
le Comunità sarde con variegati sistemi e costumi solidaristici e di forte
unità: basti pensare a s’ajudu torrau o a sa ponidura: costumanza che colpirà
persino un viaggiatore e visitatore come La Marmora che [in Viaggio in Sardegna di
Alberto Della Marmora, Gianni Trois editore, Cagliari 1955, Prima Parte, Libro
primo, capitolo VII., pagine 207-209] scriverà:”. Fra
le usanze dei campagnuoli della Sardegna, alcune sono degne di nota e sembrano
risalire all'antichità più remota : citeremo le seguenti.
Ponidura o paradura. – Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l'usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villaggio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d'un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all'infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…” Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etnico-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.
Ponidura o paradura. – Quando un pastore ha subito qualche perdita e vuol rifare il suo gregge, l'usanza gli dà facoltà di fare quel che si dice la ponidura o paradura. Egli compie nel suo villaggio, e magari in quelli vicini, una vera questua. Ogni pastore gli dà almeno una bestia giovane, in modo che il danneggiato mette subito insieme un gregge d'un certo valore, senza contrarre alcun obbligo, all'infuori di quello di rendere lo stesso servizio a chi poi lo reclamasse da lui…” Così le identità etnico-linguistiche, le specialità territoriali e ambientali, le peculiarità tradizionali, pur operanti in condizioni oggettive di marginalità economica sociale e geopolitica permangono. I Sardi infatti, nonostante le tormentate vicende storiche costellate di invasioni, dominazioni e spoliazioni, hanno avuto la capacità di metabolizzare gli influssi esterni producendo una cultura viva e articolata che ha poche similitudini nel resto del mediterraneo. Basti pensare al patrimonio tecnico-artistico, alla cultura materiale e artigianale, alla tradizione etnico-musicale connessa alla costruzione degli strumenti, alla complessa e stratificata realtà dei centri storici e delle sagre, agli studi sulla realtà etno-linguistica, alla straordinaria valenza mondiale del patrimonio archeologico e dei beni culturali, all’arte: da quella dei bronzetti a quella dei retabli medievali; dagli affreschi delle chiese ai murales, sparsi in circa duecento paesi; dalla pittura alla scultura moderna.
Ma soprattutto basti pensare alla Lingua, spia dell’Identità e
substrato della civiltà sarda. Entrambe non totem immobili (sarebbero state
così destinate a una sorte di elementi museali e residuali) ma anzi
estremamente dinamiche. La poesia, la letteratura, l’arte, la musica, pur
conservando infatti le loro radici in una tradizione millenaria, non hanno mai
cessato di evolversi, aprirsi e contaminarsi, a confronto con le culture altre. Soprattutto questo avviene nei
tempi della modernità, a significare che la cultura sarda non è mummificata. Anche
il diritto consuetudinario – padre e figlio di quel monumento della civiltà
giuridica che è la Carta de Logu – si è trasformato nel tempo, anche se la sua
applicazione concreta (per esempio il cosiddetto “Codice barbaricino”) è da un
lato costretta alla clandestinità e dall’altro a una restrizione alla società
del “noi pastori”. Solo la crescita e l’affermarsi di studiosi, sardi non tanto
per anagrafe quanto per autonomia dall’accademia autoreferente, ha fatto sì che
gli elementi fondanti la cultura e la civiltà sarda passassero dall’enfasi
identitaria alla fondatezza scientifica. Alla straordinaria ricchezza culturale sono tuttavia spesso
mancati, almeno fin’ora, i mezzi per una crescita e prosperità materiale
adeguata. Oggi, dopo il sostanziale fallimento dell’ipotesi
di industrializzazione petrolchimica, si punta molto sull’ambiente e sul
turismo, settore quest’ultimo sicuramente molto promettente, purché si integri
con gli altri settori produttivi, ad
iniziare da quelli tradizionali come
l’agricoltura, la pastorizia e l’artigianato. La struttura economica sarda
infatti è sempre stata fortemente caratterizzata dalla pastorizia, che oggi
però con i suoi quattro milioni di pecore, sottoposta com’è a processi di
ridimensionamento dalle politiche dell’Unione europea, rischia una drammatica
crisi.