martedì 15 marzo 2016

Idi di marzo

Gaio Giulio Cesare

Il primo triumvirato, l'accordo privato per la spartizione del potere con Gneo Pompeo Magno e Marco Licinio Crasso, segnò l'inizio della sua ascesa. Dopo la morte di Crasso (Carre, 53 a.C.), Cesare si scontrò con Pompeo e la fazione degli Optimates per il controllo dello stato. Nel 49 a.C., di ritorno dalla Gallia, guidò le sue legioni attraverso il Rubicone, pronunciando le celebri parole «Alea iacta est», (“il dado è tratto”) e scatenò la guerra civile, con la quale divenne capo indiscusso di Roma. Alla vigilia dell'omicidio, Calpurnia, la moglie di Cesare, donna del tutto priva di superstizioni religiose, fu sconvolta da sogni in cui la casa le crollava addosso, e lei stessa teneva tra le braccia il marito ucciso. Lo stesso Cesare sognò di librarsi nell'etere, volando sopra le nubi e stringendo la mano a Giove. Il giorno successivo, quello delle Idi di marzo, il 15 del mese, Calpurnia pregò dunque Cesare di restare in casa, ma quegli, che la sera prima aveva detto, a casa di Lepido, che avrebbe preferito una morte improvvisa allo sfinimento della vecchiaia, sebbene si sentisse poco bene, fu convinto dal congiurato Decimo Bruto Albino a recarsi comunque in senato.
Entrato in senato, si andò a sedere ignaro al suo seggio, dove fu subito attorniato dai congiurati che finsero di dovergli chiedere grazie e favori. Mentre Decimo Bruto intratteneva il possente Antonio fuori dalla Curia, per evitare che prestasse soccorso, al segnale convenuto, Publio Servilio Casca Longo sfoderò il pugnale e colpì Cesare al collo, causandogli una ferita superficiale e non mortale. Cesare invece, per nulla indebolito, cercò di difendersi con lo stilo che aveva in mano, e apostrofò il suo feritore dicendo: "Scelleratissimo Casca, che fai?" o gridando "Ma questa è violenza!" Casca, allora, chiese aiuto al fratello, e tutti i congiurati che si erano fatti attorno a Cesare si scagliarono con i pugnali contro il loro obiettivo: Cesare tentò inutilmente di schivare le pugnalate dei congiurati, ma quando capì di essere circondato e vide anche Bruto farglisi contro, raccolse le vesti per pudicizia e alcuni dicono si coprisse il capo con la toga prima di spirare, trafitto da ventitré coltellate. Cadde ai piedi della statua di Pompeo, pronunciando le ultime parole che sono state riferite in vario modo:
  • Tu quoque, Brute, fili mi! ("Anche tu Bruto, figlio mio!").

Svetonio gli attribuisce numerose relazioni, che gli costarono anche notevoli somme di denaro; lo stesso autore dice peraltro che il suo più grande amore fu Servilia Cepione, madre di Marco Giunio Bruto, che fu sua amante per moltissimi anni ed alla quale fece favolosi doni. Proprio questo rapporto sarebbe all'origine della celebre frase sopra citata e pronunciata nei confronti di Bruto mentre veniva colpito da quest'ultimo.

venerdì 19 febbraio 2016

Dicono di noi

Cicerone (106 - 43 a. C.)
Un ex governatore della Sardegna, Aemilio Scauro, era stato accusato di aver imposto tre decime (tasse) di cui due erano autorizzate da Roma, la terza l'aveva stabilita lui per intascarsela. Scauro per quest'abuso fu processato. Al processo, che si celebrò a Roma, testimoniarono contro di lui 120 sardi. Cicerone coprì d'insulti tutti quanti sostenendo: "come si può dare ascolto e credibilità a questi sardi pelliti (vestiti con le pelli) che non sanno neppure parlare il latino". Non esita a dipingerli come ladroni con la mastruca (un giaccone lungo in pelle di capra o pecora); i suoi giudizi sulla Sardegna e sui sardi furono infamanti e insultanti. I sardi furono considerati inaffidabili e disonesti. Scauro fu assolto. Furono screditati i testimoni e l'intero popolo sardo compresa la  la sua origine. Cicerone filosofo, scrittore, avvocato e politico non si discute; sull'etica professionale e morale, con il suo tempo, sembra un processo accaduto ieri!

Sardo sono

martedì 24 novembre 2015

Sa scomuniga de predi Antiogu arrettori de Masuddas.

E’ un Capolavoro della cultura popolare, scritto nella seconda metà del 1800 in lingua sarda nella variante campidanese della Marmilla, in versi. Predi Antiogu, è vittima nel corso di una notte di un furto di bestiame. Non si conosce l’autore di quest’opera. Potrebbero essere un sacerdote stesso conoscitore dell’ambiente, o un avvocato anch’egli conoscitore dell’ambiente.
Propongo alcuni passi del poema, molto divertenti. Suggerisco di leggere più  volte (diciamo due) i versi, poiché noi sardi non siamo tanto abituati a leggere il sardo!
5-10 Populu de Masuddas, chi a s’ora de accuiai is cabonis e is puddas, basseis a scrucullai, donaimì attenzioni po totu su chi si nau, si ap’a tenni arrexoni de ciccai is crabas mias, ca funti già dua bias chi dd’appu fatu notorio e custu ad essi su trezzu e uttimu monitoriu.
20-25-30 Po cuddus chi no ddu scint, obrascendi a sa di binti de su mesi chi ddu e’ bassiu, ind’una notti ‘e scuriu, facci a su spanigadroxu a i’ duas oras po is tresi fuanta prus de cincu o sesi, chi a pistoa e a scupetta, passau’ funti in Genn’eretta, s’ecca ant assatillau e is crabas nd’anti liau de mimi su Vicariu; ch’e sagundu su summariu chi ddu’ a’ fattu me in Curia su missennori  Notariu…
45-50-55 Auncas arzeus sa ‘oxi: is crabas fuanta doxi senza chi sianta contadas cuattru brabeis angiadas i atras tres allanttantis chi cincu dis innantis po essi troppu pittias i si ddui fuanta istruias. Ddui fud u’angioneddu senza de teni s’annu, chi a paxi su scureddu, no podia mancu bassi, ca ddi luxia’ su piu de cantu fu’ grassu, ni a de notti ni ade di.
55-60-65-70-75 Ddui fu’ su crabu mannu, ddui fu’ su mascu ‘e ghia e u’antru, chi ndi tenia chi donni’ annu, po Pasca, senza nienti de malu, a una gomai mia ndi fadia, s’arregallu. E po tali sinnali pottanta is pegus mius totus sa gutturada. Pottada su crabu sou, po chi essi’ fattu scidu, sonalla e pitaio. Su tontu! A no ai sonau candu ndi ddanti liau, ca ndi fuia bassiu cun sa daga e is trumbonis, ca si ant’essi cagau po finzas is crazonis.

Sardo sono

mercoledì 11 novembre 2015

La nostra storia

Letteratura sarda a cura del Prof. Francesco Casula. Presso Università della terza età – Sanluri

L’argomento è stato trattato con grande lucidità e passione. Non è vero che la letteratura è materia riservata ai letterati, scrittori poeti ecc. La letteratura dobbiamo vederla e intenderla come la rappresentazione della vita materiale e spirituale di un popolo. E quel’è lo strumento con cui la letteratura cammina? La sua lingua! La Sardegna ha vissuto e subito tante dominazioni: cartaginesi, romani, vandali, bizantini. Con i Giudicati (o regni) la Sardegna ha conosciuto un periodo di autonomia sovrana e grazie a essa, la lingua sarda è stata utilizzata in tutti gli ambiti della vita pubblica, privata ed ecclesiastica. In lingua sarda si scriveva nei monasteri (i famosi condaghi). Questi erano registri sulle attività del monastero tipo acquisti, vendite, pagamenti ecc. Uno spaccato della vita economico – sociale del tempo. I dominatori che si sono succeduti nel corso dei secoli, hanno imposto la propria lingua (e con essa la loro cultura) relegando la nostra a un ruolo marginale e consentendo per forza soltanto la parlata orale; la scrittura invece è stata messa “all’angolo”, nascosta il più possibile. Eppure abbiamo un patrimonio letterario di grande valore che, soprattutto grazie a scrittori, intellettuali della nostra terra, questo patrimonio ha ripreso a camminare. Noi sardi e amanti della Sardegna dobbiamo diventare veicolo di diffusione della nostra lingua verso le nuove generazioni. Respingiamo l’opinione purtroppo diffusa secondo la quale si ritiene che convenga studiare le lingue straniere (l’inglese soprattutto). Niente di più sbagliato! Sapere più lingue è sempre una risorsa in più.

Unu saludu da

Sardo sono

giovedì 8 ottobre 2015

Mia madre

Eugenia mia
Ieri 7 ottobre era il giorno della tua di nascita. L’anno: 1920.

Mia madre

Eugenia mia, quanti ricordi! Oggi posso dire tutti belli. Anche se tu eri autoritaria, ma, col tempo ho capito che era a fin di bene. GRAZIE!
Ricordo…
-Quando all'età di cinque - sette anni, non avevo molto appetito, mi "obbilgavi" a mangiare "amarolla"(per forza). Mi portasti anche da uno specialista a Cagliari il quale mi prescrisse delle punture e una medicina chiamata "olio di fegato di merluzzo". Putzzi, putzzi!
-Quando la domenica mi facevi il bagno davanti al fuoco e mi aiutavi a vestirmi per andare a messa.
-Quando dopo il tramonto (verso l'ora di cena) mi mandavi alla bottega di alimentari a comprare i fiammiferi, oppure "duasa o tresi unzasa de cunserva"(due o tre once di conserva)
-Quando all'ora di cena non mi vedevi tornare e uscivi a cercarmi; tu mi chiamavi a voce alta in paese, in periferia e nella vicina campagna. Io ti sentivo ma non avevo il coraggio di risponderti e allora correvo a casa arrivando prima di te. Tu, quando tornavi (non certo contenta del mio comportamento!) me le suonavi...una musica nella schiena e nel sedere.
-Quando mi mandavi a tagliarmi i capelli. Mi dicevi: "Naraddi a su brabieri de ti tundi a s'umberto"(digli di farteli all'umberto, cioè a spazzola). Una volta, dpo che il barbiere mi aveva tagliato i capelli, i clienti presenti (tutti adulti) dicevano che mi aveva rapato a zero. Siccome allo specchio non ci arrivavo, non potevo controllare (ovviamente era uno scherzo, ma io c'ero cascato). Corro a casa quasi piangendo. Tu appena mi vedesti: " puita sesi prangendi"? (perchè stai piangendo?) Io: "m'anti tundiu a rasu"(m'hanno rapato a zero). La tua reazione: "ge se pagu stramu! Castiadi in su sprigu" (quanto sei tonto! Guardati allo specchio).
-Quando andavo a trovare Luciano Porru il calzolaio. Un giorno mi taglio un dito con il trincetto (lama affilatissima). Vedendo il sangue mi spaventai. Luciano e il suo apprendista incominciano: "cessu ti morrisi cun didu atottu"!(muori con il dito). Scappo di corsa a casa, tu mi vedi spaventato con il dito insanguinato e mi chiedi "ita asi fattu?" Io: "ziu Lucianu m'adi nau ca morru cun didu atottu". Mamma ero proprio un...boccalone. Tu dicesti: "Stramu da Gesu Cristu".
-Quando andai a fare il pastorello a Turri a casa dei fratelli Atzori (Dino e Paolo). Rientrai a casa dopo qualche settimana per cambiare la roba personale utilizzata con altra pulita, e scoprì che nonno Masala era morto. Era il 1961.
-Quando andavo a giocare nella trebbiatrice, ferma nell'aia con un figlio del prorpietario e altri coetanei. Mentre stavamo curiosando e armeggiando mi schiaccio il pollice della mano sinistra. Torno a casa con l'unghia a penzoloni. Dolori, dolori. Tu mi medicavi tutti i giorni con tanta pazienza a attenzione.
-Quando abitavamo in casa di nonno Piras, iniziai a frequentare le elementari. Ricordo che quando facevo i compiti prendevo la matita con la mano sinistra. Nonno mi dava all'improvviso certi schiaffoni sulla nuca che... era un piacere! Risultato: ho imparato a scrivere con la destra!
po’ oi bastat
Un saluto da Armando

Sardo sono  

mercoledì 16 settembre 2015

Ademprivio

Per ademprivio s’intendeva in Sardegna, e tuttora in diritto, un bene di uso comune, generalmente un fondo rustico di variabile estensione, su cui la popolazione poteva comunitariamente esercitare diritto di sfruttamento, ad esempio per legnatico, macchiatico, ghiandatico o pascolo. Il termine, usato al modo latino (ademprivia), ma apparso intorno al XIV secolo, fu diffuso in Sardegna dai sovrani giudicali durante il loro dominio sull'isola e mutuava istituti analoghi già in uso in aree comprese fra la Provenza e la Catalogna.
Un'altra descrizione minuziosa venne, dal generale Alberto Della Marmora, che la Sardegna esplorò a fondo come commissario straordinario e soprattutto come geografo d’intensa attenzione. Scrisse il militare in Voyage en Sardaigne: "Si chiama vidazzone una porzione di terra coltivata a cereali per un anno."Il generale fornì anche nozioni utili per la linguistica, precisando che il contrapposto termine di paberile si riferiva alle terre lasciate a riposo, mentre il vidazzone era propriamente il terreno seminato o già in piena vegetazione.


Sardo sono

venerdì 31 luglio 2015

A SU FOGU A SU FOGU!

Come ogni estate, ci risiamo. Gli incendi che distruggono tutto quanto trovano nella loro strada: boschi, campi coltivati a grano e altri cereali, case al mare e montagna, aziende artigiane e agricole, animali bruciati vivi, o salvati per miracolo, persone di tutte le età e condizione intrappolate nelle fiamme che fuggono verso qualsiasi parte col terrore di non farcela (come successe a Tempio Pausania). Dopo il passaggio del fuoco, il panorama è desolante, nero, fuligine e cenere sparsa, trasportata dal vento. Ogni forma di vita si ferma. Il paesaggio infonde rabbia, paura, impotenza, rassegnazione. Il fuoco è bello d’inverno per scaldarsi, per arrostire, per raccontare la vita (contus de forredda), per assaggiare il vino novello, per abrustolire il pane accompagnato magari da una fetta di pecorino alla brace, per fare gruppo tra giovani e anziani e tante altre cose che fanno bene al corpo e…allo spirito!


Sardo sono